Vecchiume? Macché, socialità all’ennesima potenza!

Usanze, ce n’è davvero ancora bisogno? Secondo la nostra columnist, sì! E non è la sola a pensarlo.

Parlare di rivelazione sarebbe forse un tantino esagerato, ma di certo ho vissuto momenti di meraviglia quando Hermann «Hermi» Röllin, di professione contadino, mi ha accompagnato sotto le fronde dei suoi 300 ciliegi in fiore elencandomi tutte le varietà che coltiva: Wölflinsteiner, Zimbeler, Benjaminler, Langstieler, Buholzer, Rote Schüttler, Tüfebächler, Baarburger, Dollenseppler. E ancora: Kordia, Magda, Zopf, Star, nomi brevi ma altrettanto evocativi, che suonavano come musica alle mie orecchie!

Nella regione di Zugo, la ciliegia si coltiva da ben 600 anni. Il mercato delle ciliegie, il «Zuger Kriesymerckht», esiste dal 1627 e la «Zuger Chriesigloggä», la campana con cui si annuncia ufficialmente l’inizio della raccolta (quasi una sorta di «autorizzazione sonora»), è documentata sin dal 1711. Insomma, c’è di che andarne fieri. Eppure, quando si parla di usi e costumi, io so essere abbastanza difficile! Non mi aggrego ai pellegrinaggi a Einsiedeln perché sono aconfessionale, mentre accetto senz’altro l’invito dell’associazione di quartiere a gustare in compagnia un salmerino alpino del lago di Zugo cucinato come si deve. Un vero e proprio «must» sono le strambe gare di trattori monoasse nei paesini di montagna, dove tizi dalle guance paffute schiacciano a tavoletta sull’acceleratore, il pubblico si ubriaca di vapori di benzina e gasolio, mentre i soggetti più scalmanati, con le scarpe ridotte ad ammassi di fango, si misurano nel lancio del motore.

Ed ecco che già viene da chiedersi: quanto dev’essere antica un’usanza perché la si riconosca come tale? E quando, invece, un evento organizzato ogni anno è da considerarsi solo una manifestazione ricorrente? Dove si situa il confine tra folklore e commercio? Il turismo ha riconosciuto ormai da tempo il potenziale economico insito nelle usanze tradizionali, anzi è intervenuto trasformandole e rimodellandole in base a criteri commerciali – talvolta fino al punto critico, come ho dolorosamente constatato diversi anni fa in occasione di una visita alla gara di tiro per ragazzi, il cosiddetto Knabenschiessen, di Zurigo. Una volta e mai più!

Nei dizionari l’usanza viene definita, con un’accezione piuttosto estesa, come «un atto o un insieme di atti che si usa compiere per tradizione in un determinato tempo, luogo o ambiente». Il termine può così abbracciare un ampio ventaglio di situazioni, dalle esibizioni degli sbandieratori a quelle dei suonatori di corno delle Alpi, dalle abilità di artigiani di nicchia a specialità culinarie, fino a eventi molto meno pubblicizzati e popolari, come – tanto per fare un esempio legato al luogo dove abito, Zugo – il suono della campana della pace dalla Kapuzinerturm che ogni anno, l’8 maggio, saluta la fine della Seconda guerra mondiale. E proprio questa bella usanza senza pretese, per nulla appariscente, mostra quanto la serietà di un costume non si misuri dall’affluenza di pubblico o dal fatturato che è in grado di generare. Altrimenti, la «Street Parade» di Zurigo, la più grande festa tecno al mondo che si svolge ormai dal 1992, sarebbe da qualificare come «la madre di tutte le usanze».

Apprezzo molto le manifestazioni in cui emergono valori locali e si esprime la gioia di stare insieme: l’«Alpchäsmärcht» (il mercato dei formaggi di malga) a Muotathal, il «Chestene-Chilbi» (il mercato di prodotti a base di castagne) a Greppen, la «Jodlerchilbi» (sagra dello jodel) all’alpe Ruodisegg nei pressi del Rigi. Eccezionali! Molte di queste usanze sono il terreno in cui affonda le radici la nostra identità e presentano forme profondamente ritualizzate, talvolta contraddistinte da un vero e proprio immobilismo. Tuttora – scandaloso! – le donne sono escluse dal «Klausjagen» di Küssnacht. Dico, ma dove siamo? Una richiesta avanzata nel 2015 da un abitante del luogo all’assemblea generale dell’associazione di San Nicolao affinché in futuro anche «cacciatori» di sesso femminile fossero ammessi al corteo è stata respinta a larghissima maggioranza: 20 sì contro 720 no.

Molte di queste usanze sono il terreno in cui affonda le radici la nostra identità e presentano forme profondamente ritualizzate, talvolta contraddistinte da un vero e proprio immobilismo.

Uno slogan del Sessantotto in Germania parlava spregiativamente di «vecchiume di 1000 anni». Il movimento disprezzava tradizioni e usanze, ritenendole anticaglia da buttare, incarnazione di una società irrigidita in una gabbia di convenzioni. Sicché dovremmo naturalmente chiederci: pecco di scarso senso critico? Forse dovrei astenermi dall’assistere a eventi tradizionali già solo per ragioni di politica sociale? Proprio no! Perché il mio entusiasmo per la cultura popolare svizzera è assolutamente di tendenza, secondo Pro Helvetia. Sono anni ormai che il settore «tira».

Ma torniamo alle ciliegie con cui avevamo iniziato. Da tre anni, all’inizio di ogni estate, aiuto per un paio di giorni un vicino, il contadino Albert «Bärti» Weiss, nella raccolta di questi frutti. Che privilegio poter salire – con scarponcini, pantaloni corti e il tradizionale cesto agganciato alla cintura – sulla lunga scala di legno artigianale e allungare la mano verso le ciliegie mature. Che pace e che silenzio si assaporano immersi nella chioma di questi alberi ad alto fusto, che vista si può ammirare da lassù! Come rinfresca il venticello leggero che soffia tra i rami e che bell’ombra si gode grazie al fogliame rigoglioso! Nessuno che disturbi, nessun cellulare che suona.

Nemmeno un weekend benessere in un resort di lusso regge il confronto con l’esperienza che può regalare questa attività, così spettacolarmente di basso profilo. Basterebbe già questo per suonare le trombe e stendere tappeti rossi, ma c’è di più: la soddisfazione di dare, allo stesso tempo, un piccolo contributo per mantenere viva una tradizione secolare e far sì che anche in futuro questa possa continuare ad essere «la terra delle ciliegie».

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